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Il mio blog di fotografia e altro

Testimone Oculare

Riporto la conversazione con mia figlia Martina avuta in occasione della mostra a Jesi nel Settembre 2023 a Palazzo Bisaccioni “Testimone Oculare”.

TESTIMONE OCULARE – Un breve viaggio iniziatico

Martina Matarazzo: Cominciamo questa nostra conversazione dal titolo: perché “Testimone oculare - Un breve viaggio iniziatico”?

Giovanni Matarazzo: Un fotografo è certamente un testimone, e per di più oculare. Specie quando è attraversato dalla passione per la sua attività, dalla curiosità e da un intento civile, ancorché artistico. Questa mostra raccoglie le immagini scaturite da diverse riflessioni sulla realtà e sulla visione, che mi hanno portato a scoprire degli aspetti della fotografia per me inediti. Queste immagini scelte costruiscono un piccolo viaggio iniziatico, che qui voglio condividere.

MM: Un concetto che so ti sta molto a cuore: puoi spiegare come l'ombra è protagonista nella tua visione della fotografia?
GM: Fotografare significa "scrivere con la luce", ma questa definizione non rende sufficientemente onore all’ombra. E questo benché nella fotografia saranno le ombre a dare corpo allo sterminato e incontaminato foglio bianco che viene impressionato in fase di stampa. Se ci fosse solo luce, e nessuna ombra - o nero nelle sue gradazioni - non vi sarebbe immagine. Allora, se nel primo processo di impressione della pellicola è la luce a determinare l’immagine, nella seconda - la stampa - la forma sarà data dalle zone di ombra proiettate sulla carta. 

E qui trovo una similitudine su come guardiamo le persone: noi tutti siamo fatti di luci e ombre, e se non ci fossero le ombre (che chiamiamo “difetti” o altro) non vedremmo la nostra integrità. Così come, se non ci fossero i “problemi” quotidiani, non ci accorgeremmo della fortuna dei momenti positivi che pure viviamo.

MM: Parliamo delle tue prime esperienze fotografiche…
GM: L’innamoramento per la fotografia mi prese in età adolescenziale. Ogni fotografia era per me un modo per appropriarmi di qualcosa che amavo (e a volte di qualcosa che odiavo, che denunciavo o che comunque non accettavo). Solo ora mi rendo conto della verità delle parole di Plinio il Vecchio, secondo il quale la pittura ebbe origine quando una donna tracciò il profilo dell'amato che stava per partire attorno all'ombra proiettata dal suo viso. Forse per questo i miei soggetti preferiti erano le ragazze, a cui facevo il ritratto.
 Da questa impostazione adolescenziale, sono arrivato a considerare la macchina fotografica come la forcella del rabdomante: il desiderio di scoprire qualcosa di sconosciuto che celano le cose e le persone - attraverso un terzo occhio - è così profondamente connaturato in me che lascio che sia la macchina a interpretare le vibrazioni che da me partono e a me tornano dal soggetto.

MM: Quindi negli anni, c’è stata una netta evoluzione nel modo in cui vivi intimamente la fotografia… 
GM: È un altro tipo di amore, oggi: da quello passionale provato per le compagne da adolescente, ad amore per la conoscenza, anch’esso permeato di sensualità distillata.
 Ad un certo punto della mia vita ho sentito il limite del mio agire, in concomitanza con la consapevolezza che tutto (o quasi) è stato detto, che gli archivi di tutto il mondo contengono immagini che ci basteranno per decenni ancora, che nel mondo si scatta un’enorme quantità di fotografie, in crescita esponenziale. Ho sentito quindi la necessità di semplificare.

MM: Parli di un cambiamento nella tua pratica, in particolare con progetti come "La bellezza disturbata" e "Coprifuochi". Puoi condividere il processo dietro questi progetti e come hai affrontato la complessità di temi come il cambiamento e l'oppressione?
GM: "La bellezza disturbata" è stato il primo episodio della mia trasformazione. Ho deciso di semplificare, di trovare nuovi modi di esplorare l'arte fotografica. Sentivo la necessità di una “economia (o ecologia) dello sguardo”. Come dicevo, abbiamo sterminati archivi di città, e Firenze e Venezia sono forse tra le più fotografate al mondo. Mi sono posto in questo lavoro come un abitante di queste città nei loro “periodi d'oro”, e ho cercato di mostrare quanta bellezza abbiamo perso a causa del loro degrado. Con pochi mezzi: con poca pellicola e con una macchina fotografica con un solo obiettivo.
Con "Coprifuochi", durante il lockdown, ho cercato di rendere l'oppressione che tutti noi stavamo vivendo. Questo lavoro è nato dall'osservazione di come i nostri sistemi di credenze, insieme a quelli socio-istituzionali possono diventare delle prigioni invisibili. Ho cercato di raccontare gli ostacoli alla visione, alla libertà di pensiero, esplorando come il nostro sguardo cerca la libertà, anche quando frapposte tra noi e l’Infinito ci sono barriere esterne.

MM: I “Fiori” hanno avuto un ruolo importante nella tua ricerca? Perché?
GM:. La serie “Fiori” è precedente alle altre sezioni della mostra. Con ‘Fiori’ invito a una pacificazione dello sguardo e ad immergersi nelle loro forme, nei colori che emanano energia e contaminano anche le zone contigue. In questo, la fotografia ha un ruolo fondamentale, perché mostra e blocca la bellezza prima che deperisca, come ogni cosa materiale fa. La rende eterna e fruibile in ogni momento.

MM: Infine, parliamo della tua serie "Haiku". Come hai integrato il concetto di Haiku, con la sua brevità e profondità, nella tua fotografia?
GM: L'Haiku è un'arte giapponese che cattura l'essenza in poche parole. Mi ha ispirato profondamente. Nella serie "Haiku", l'ombra è protagonista. Le ombre suggeriscono oggetti sfocati che si stagliano su uno sfondo riconoscibile, permettendo all'immaginazione di vagare alla ricerca dell'origine. Gli Haiku tradizionali lasciano spazio all'interpretazione del lettore, e ho cercato di portare questa filosofia nella mia fotografia, creando immagini che sono come stelle cadenti in un cielo notturno, brevi ma ricche di significato. “Haiku” è come la prosecuzione naturale di “Fiori”: da una bellezza tangibile e concreta a una ricerca di bellezza in quello che non è immediatamente visibile, che sta a noi trovare e decodificare. 

MM: Grazie per aver condiviso queste profonde riflessioni sulla tua arte. È stato un piacere esplorare il mondo della tua fotografia con te oggi.
GM: Grazie a te, Martina. 

LO STRABISMO DELL'ARTE

Grazie alla lettura dei racconti di Raymond Carver (e un po' di esperienza personale), mi sono fatto l'idea che la buona arte è strabica. In senso positivo, nel senso che guarda in due direzioni diverse.

Mi viene alla mente il bellissimo racconto “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore” di Raymond Carver. Intorno ad un tavolo di cucina, di pomeriggio, due coppie di amanti (tutti precedentemente sposati con altri) cominciano a bere gin ognuno raccontando le proprie esperienze di coppia. La conversazione va avanti a lungo, tra ricordi, recriminazioni, confessioni, rimpianti... E con tanto gin da due soldi.

È una girandola in cui il lettore è il vero protagonista della storia, chiamato a ricucire storie a volte lontane a volte presenti. Si legge il racconto (l'ho letto) come a cercare qualche verità dalle parole dei personaggi, rimbalzata da uno all'altro. Ma il momento rivelatore è un dettaglio: a un certo punto Carver dice che si sta facendo buio, e la luce brillante del pomeriggio, che invadeva la cucina, svanisce e se ne esce dalla finestra da cui era entrata; ma nessuno accende la luce fredda dell'illuminazione artificiale. Ora, credo che tutti noi abbiamo esperienza di quel momento in cui in un interno la luce del sole cala ma si cerca di resistere e di non accendere la luce perché, da lì in poi, tutto sarà diverso, tutto svanirà e la luce elettrica farà scomparire la meraviglia a cui i nostri occhi si erano abituati a fatica: tutto diventerà banale e piatto laddove, prima, la vita intorno attuava una delle sue più mirabili trasformazioni dal giorno alla notte.

Questo dettaglio, in Carver, è detto con poche parole (che non ricordo con precisione), ma che illuminano come un lampo tutto il senso del racconto. Da lì in poi si percepisce tutta la pesantezza della situazione, tutto il non detto, tutto il mistero dell'amore, che le parole invano cercavano di chiarire. È come se Carver ci avesse invaso con maree di frasi ma il “punctum” era la luce. Tutto ruota intorno a quel momento, e a da lì in poi il silenzio imbarazzato dei personaggi illuminati dalla luce artificiale si fa tangibile. Tutto cade, come cadono il giorno e l'esterno quando si accendesse una lampadina al crepuscolo. Ma è il buio che fa silenzio tutto intorno, e tutti riescono, finalmente, a sentire il battito dei loro cuori.

Che cosa mi ha insegnato questo racconto? Che l'artista non prende di petto una questione, ma la corteggia: la guarda da lontano, guardando anche ciò che non si vede immediatamente e non si può troppo raccontare a parole. Lui “sa” che c'è dell'altro, ma non lo dice: lo fa appena intravvedere e poi, zac! con un colpo da maestro arriva la rivelazione: una lampadina che (non) si accende e in una frazione di secondo (non) uccide la debole luce del giorno.

Allo stesso modo, nell'Ottocento, il noto storico dell'arte Giovanni Morelli riconosceva l'autenticità di un'opera pittorica analizzando dettagli secondari, insignificanti, quali la conformazione delle dita delle mani o dei piedi, di un orecchio, ecc. In questo modo, dettagli che l'artista aveva dipinto senza troppa attenzione - perché secondari - rivelavano la sua firma unica e inconfondibile. Perché i falsari si concentrano più su aspetti importanti quali la geometria, la luce, l'espressione del volto, mentre ai dettagli non danno peso. Forse è per questo che si dice che “nei dettagli si nasconde il diavolo”.

In questi casi, però, si rivela la verità (per chi la sappia cercare).

Per chi volesse ascoltare il racconto: https://youtu.be/WIp-c8_X1Ik?si=mz6yJcDH968UFDus

Europa Fisica e Europa Politica

Europa Fisica e Europa Politica

Tutto è nato dall'osservazione di una parete di un'aula scolastica su cui erano appese due cartine dell'Europa: una Fisica e l'altra Politica.

L'Europa Fisica è un territorio che su cui una donna languidamente distesa si bagna i piedi nelle tiepide acque del Mediterraneo e poggia la testa sui freddi territori scandinavi.

Due venti accarezzano il suo corpo: da Sud-Est lo Scirocco si spinge a Nord e unisce Omero a James Joyce; da Nord-Est soffia il freddo vento di Bora che unisce Sigmund Freud a Italo Svevo.

A Trieste il miracolo: Joyce e Svevo si incontrano e diventano amici.

Un altro vento dalla Boemia alla Francia ha collegato Franz Kafka e Louis-Ferdinand Céline, entrambi inorriditi dagli obbrobri e dagli stili di vita che si andavano creando nel Nuovo Mondo, che oggi riconosciamo ma di cui siamo sudditi.

L'Europa Politica è come un grande manto di plastica trasparente sovrapposto a quella Fisica: asfittico, è attraversato da linee di confine, di regioni e di territori separati e spesso nemici; la ragnatela di linee sembrano cavi d'acciaio incandescenti attraversati da una corrente elettrica che sfrigola e allontana, respinge e brucia chi la tocchi. Come una vista di Los Angeles ripresa dall'alto. E tutti noi siamo attraversati da questa corrente che ci rende non-più-umani.

L'Europa Fisica ha fatto la fortuna delle sue genti con i commerci di Frutta, di Spezie, di Tessuti, di Manufatti... E con le migrazioni.

L'Europa Politica discute sulle dimensioni che devono avere i cetrioli per poter essere venduti.

Un mercante anconetano, Ciriaco Pizzecolli, conosciuto come Ciriaco d'Ancona, è considerato il primo archeologo della storia (prima di Schliemann) in quanto, nei suoi viaggi nel Mediterraneo, nella prima metà del Quattrocento, al cospetto delle vestigia delle civiltà greche, romane e bizantine, le descrisse e catalogò. E divenne anche uno stimato e accreditato diplomatico.

L'Olio, il Vino e i Cereali, che hanno nutrito generazioni di umani, rischiano ora di essere banditi dalla mensa dell'Europa Politica. Così come il Sale, che ha avuto bisogno di strade appositamente costruite per essere trasportato. “No, sono cibi che fanno male, più di alimenti creati in laboratorio.”

A capo di questo organismo dissennato, una donna bionda dall'aspetto piacevole (ma dalla sostanza luciferina) per un piatto di lenticchie ha venduto la salute degli Europei per favorire il suo potente consorte legato a traffici che esulano dal Mediterraneo e attraversano l'Oceano. Delirio di onnipotenza e uso della prepotenza: solo questo la lega agli dèi sull'Olimpo.

In Palestina, a pieno titolo facente parte della cultura Mediterranea, nacque un Uomo da cui si contano gli anni in tutto il mondo. Andarono ad omaggiarlo e adorarlo Negromanti-Re-Nomadi carichi di doni sontuosi frutto di quelle terre, guidati solo da un sogno e da una speranza: che il Messia fosse nato e potesse cambiare il mondo.

L'Europa Politica ha lasciato che lì i dissidi tra due popoli si inasprissero, si incancrenissero e causassero, fino ad oggi, centinaia di migliaia di morti. Non solo: sta cercando di far fuori ogni riferimento a quell'Evento trincerandosi dietro al rispetto di tutte le culture e le credenze. In realtà, l'obiettivo è far fuori OGNI credenza o fede che non siano il Mercato o il Denaro, in supina obbedienza alle direttive che emana.

Ligia agli ordini che da oltre Oceano arrivano, l'Europa Politica è disposta a rinnegare le sua cultura millenaria, tanto da impedire ad artisti di avere voce e presenza se appartenenti ad un Paese ritenuto nemico. È chiaro allora, che all'Europa Politica nulla importa dell'Europa Fisica, che pure nel tempo ha creato legami, approvvigionamenti, suggestioni e consapevolezze nuove nei suoi Popoli.

E che pure ha contribuito a liberare l'Europa da un cancro chiamato Nazismo, che sommessamente sembra essere tornato ad avere voce nelle sue manifestazioni, meno evidenti ma sostanziali. D'altronde, come sosteneva qualcuno: «La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù».

E in questo, no, non c'è nessun rapporto con la Democrazia dell'antica Grecia che ha dato origine alla cultura Occidentale.

ARTE MIMETICA

C'è bisogno dell'Arte?

Parto da una domanda: c'è bisogno di “Arte” oggi, in Italia?

Mi vien da dire che dell'arte ha bisogno solo chi la fa, per vivere, per sopravvivere.

Infatti, data la piega che ha preso il “sistema dell'arte” (e non solo in Italia), questa serve solo per far soldi. Il pubblico è solo la massa d'urto che “gonfia” ciò che si produce, spesso incapace di giudicare (o apprezzare) ciò che vede. Capace solo di farsi “follower”. È una cassa di risonanza preziosa che moltiplica e diffonde solo banalità e asservimento al vincente di turno. In un sistema che ha reso merce anche valori “non negoziabili” e ha fatto del mondo un enorme mercato in cui tutto si può vendere e acquistare attraverso un dito e una carta di credito, il fare arte non sfugge a questa regola. Il pubblico può essere solo digitale, binario: “mi piace” o “non mi piace”. Nient'altro si riesce a cavar fuori dal pubblico in uscita dal cinema, da una mostra o dalla Biennale. Non una critica, non un ragionamento originale e interessante, al più frasette smozzicate e raffazzonate desunte dalla comunicazione degli uffici stampa.

Allora, dato che – come dicevo prima – l'arte “serve” solo a chi la fa, gli artisti dovrebbero iniziare a vendere cara la pelle. Intendo che dovrebbero mimetizzarsi, uscire dal paradigma della notorietà, del successo e del denaro, applicare la loro arte in qualsiasi cosa facciano. Un'arte “mimetica” (non nel significato di “imitazione” quanto di “nascondimento”), intendo: polpette avvelenate dentro opere apparentemente allineante, che lo spettatore è poi chiamato a decodificare. Mi viene in mente, tra tanti, Carlo Crivelli che, all'interno di un quadro magnifico di una Madonna con Bambino, dipinge una mosca (simbolo di morte e del demonio) incredibilmente realistica, come fosse effettivamente poggiata su una balaustra. Crivelli era perfettamente consapevole della rivoluzione che il Rinascimento stava apportando, e non era d'accordo, non apprezzava. I suoi modi per dichiararlo erano diversi: in una tavola a fondo d'oro costruiva una prospettiva impossibile che neanche Escher; su un cielo terso faceva gettare l'ombra di un festone di frutta che neanche Magritte...

Era il suo modo segreto per raccontare (e avere commesse), ma anche per criticare e instillare il dubbio nello spettatore. Era una pratica ben nota agli Alchimisti, di cui si è persa traccia. Oggi, al più, si dissemina un'opera di immagini subliminali, ma sempre e comunque a favore del potere.

Come uscirne? Credo che si debba lavorare di più sull'arte applicata, sui prodotti di fruizione quotidiana, con un'occhio sempre attento agli interessi della comunità e degli individui che la compongono. L' “arte applicata”: questa sorella minore delle “Arti” costituisce oggi il veicolo più efficace per scardinare un modello che ci ha portato ignoranza e subalternità. Basti pensare all'Intelligenza Artificiale (sì, è il mio chiodo fisso, ora) che sforna prodotti esteticamente accettati, se non osannati, dai più: foto e illustrazioni con composizioni, ambientazioni, luci e ombre perfette: perfettamente, cioè, rispondenti a quel che una massa di persone ha detto all'algoritmo che possono piacere. Niente di più, non un sussulto di genialità, non una critica originale, non un elemento che possa muovere processi complessi: solo accettazione, solo ammirazione, solo sudditanza verso ciò che la tecnica (che oggi comanda davvero, più dell'economia) può fare, solo uno squallido, patetico e orgoglioso senso di appartenenza alla specie umana che è “capace di tutto questo”. È questa la nuova divinità che si è sostituita alla precedente: un Moloch (il Corruttore) che tutto sa di noi, che ci comprende, ci rassicura, che può darci quelle risposte che ci son volute le vite di generazioni solo per formularle.

A tutto questo non si può sottostare: gli artisti dovrebbero nascondersi, dovrebbero condurre vite francescane, dovrebbero cospargere le loro tele di chiodi (mi viene in mente il ferro da stiro con i chiodi di Man Ray), dovrebbero lavorare per la Comunità anche e soprattutto in opere minori, e sempre con questo spirito di servizio. Perché hanno avuto in dono un talento che devono far fruttare a beneficio di tutti. Mi viene agli occhi un'immagine: un bravo meccanico che si prende cura della tua auto come fosse la sua: qualcuno che mette a disposizione di un altro il suo talento.

Impagabile, una vera Arte.

Dovremmo poter percepire arte nelle posate che usiamo per nutrirci, nella tovaglia che mettiamo in tavola, nel blocco notes su cui scriviamo, nell'automobile che guidiamo, in un pannello decorativo... Ma non in modo sfacciato, urlato e costoso, ma modestamente, come un sottofondo quotidiano. Solo così “la bellezza salverà il mondo”: un po' alla volta, quando neanche ce ne accorgiamo; ma il nostro sguardo cambierà, giorno dopo giorno.

Arte Sterile e Arte Fertile

Marchel Duchamp, artista celibe per eccellenza, ebbe a dire che un artista non deve avere figli, perché gli tolgono qualcosa (cito a memoria).

Paradossalmente, il “celibe” Duchamp ha creato arte “fertile”, ovvero arte che ha partorito generazioni di opere d'arte - sue e di altri - e di artisti che ne hanno compreso l'agire (o il NON agire).

In questo momento storico, dove spesso gli artisti sono asserviti a un “sistema dell'arte”, a una economia e alla finanza che lo sostiene, quando questo sistema proclama una sessualità non pro-creativa ma “fluida”, “non binaria”, che tipo di arte possono esprimere gli Autori?

Ritengo arte fertile quella che genera: pensieri, dubbi, emozioni (positive e negative), considerazioni, domande, re-azioni... quella cioè che cambia il modo di vedere il mondo e di approcciarlo; mentre ritengo arte sterile quella “WOW!” quella che fa dire: “ma che bravo, ma come ha fatto? ma è un genio! (penso specialmente agli attuali iperralisti)”, che in fondo ci lascia come ci trova, se non più cattivi e cinici.

L'arte sterile si vende bene, perché ricalca perfettamente quel che la società impone: acquistando o approvando, ci si sente allineati e soddisfatti, appagati. Così si compra.

L'arte fertile scatena dubbi, pone domande, non si sa come situarla, non è “up to date”, magari si rifà al passato (in spregio della “modernità”), costruisce una comunità nuova, è anarchica e rivoluzionaria, mentre l'arte sterile è reazionaria: venera solo il capitale e le sue leggi. E l'arte fertile si vende male, perché non solletica la sicurezza di essere nel giusto, di essere integrati, allineati. In fondo, perché non si è certi che aumenterà il suo valore economico nel tempo.

Secondo me, in questo dualismo viaggia il fare arte oggi: nella decisione da che parte stare.

Duchamp (benché celibe) aveva pro-creato e creato una cesura nell'arte del Novecento: quella prima e quella dopo di lui. Così come altri (e penso a Mondrian).

Secondo voi, un artista contemporaneo “sterile” potrebbe operare - con il suo fare - a dispetto degli investitori di oggi (quali le grandi multinazionali finanziarie con sede a Wall Street e ai collezionisti più danarosi)?

In questa corrente di disimpegno verso la propria comunità a favore del proprio interesse, inserisco la produzione più sterile e dannosa che esista: quella generata dall'AI. Ogni persona priva di talento è oggi in grado di “produrre” qualcosa che è l'apoteosi della banalità, del già visto, della volgarità: la media mediata delle espressioni di chi dà all'algoritmo parti preziose di sé affinché il sistema restituisca qualcosa (che prenderà da individui come lui) che possa interessare e stupire i più: “WOW” grida lo spettatore affascinato dal solipsismo di chi ha dato istruzioni al sistema. Il quale “autore” gioirà nel mostrare a parenti e amici le mirabilia della tecnologia e di come lui la governi, lasciandoli come si trovavano. Peggio delle centinaia di diapositive che l'amico fotoamatore ci costringeva a guardare di ritorno dalle vacanze, fatte con una macchina super-automatica!

Per concludere: ritengo che l'Arte Fertile difficilmente avrà un effetto “WOW” sul pubblico, mentre altri (uno per tutti: Cattelan) farà di tutto per strappare quei gridolini che sono alla base della sua azione, “signora mia!”.

Così, quando mi trovo di fronte a un'opera, inconsciamente mi chiedo: “Mi vuole stupire? E perché? Da che parte sta e vuole portarmi? Che strada mi indica? Mi interessa?”.
Fatevi domande, di fronte all'opera di un altro umano, chiudete gli occhi e ruotateli verso la vostra interiorità. Solo questo varrà per decretare se un'opera è arte o no; solo così scoprirete se è qualcosa che ha a che fare con voi nel profondo.

Per una piccola rivoluzione nel mondo dell'arte

Scrivo con orgogliosa modestia.

È cominciato tutto nel 2015, al mio ritorno da Taiwan.

Ero stato invitato ad esporre le mie fotografie ad Art Taipei 2015 – una delle più importanti fiere del settore in Far East – da una “advisor” internazionale.

Potete capire le mie aspettative e la mia emozione: dopo una vita che non fotografavo più, da pochi mesi avevo ripreso e già qualcuno si interessava al mio lavoro.

Preparai tutto con cura: le stampe fine art in grande formato, il sito internet, uno scatolone di biglietti da visita, come mi era stato consigliato. La fiera era enorme e molto affollata, ma c'era come un'ombra. Tutti (galleristi, espositori, artisti, collezionisti...) temevano sull'esito della fiera perché ad Agosto (eravamo a fine Ottobre) la Borsa di Pechino aveva avuto un crollo e le conseguenze si facevano ancora sentire. Ingenuamente mi chiedevo: “ma che c'entra la Borsa con l'arte?”. Lo capii nei giorni di fiera: in situazioni turbolente, nessuno compra e nessuno vende, mi dissero. Restava ancora il dubbio su come le due cose fossero collegate. Anche questo imparai: il “Mercato dell'Arte” è in mano ai collezionisti, che aprono i cordoni della borsa a loro capriccio e così determinano il valore. Se qualche collezionista, ad esempio, vuole investire su un artista emergente, mette in atto tutte le sue risorse (finanziarie e di conoscenze, quindi galleristi, critici, riviste, media, opinion maker, ecc.) e “scommette” che in un breve (o lungo) lasso di tempo quell'artista che valeva 100 arriverà a valerne 10.000 e più. “Scommettere”, appunto, “giocare in borsa” al di là e al di sopra del valore estetico delle opere di quella persona. È ovvio che l'artista debba essere ben allineato e obbediente alle richieste del collezionista, che deve essere certo che il suo investimento frutterà senza rischi. Finita l'era “romantica” dei collezionisti innamorati di quel che vedevano e pre-vedevano, dei galleristi coraggiosi che organizzavano mostre puntando sui talenti che li colpivano, degli artisti fedeli alla loro Arte, lì si aggiravano “collezionisti-manager” con un occhio alle pareti degli stand e un occhio agli indici di borsa. Gli artisti presenti, tutti ben forniti di biglietti da visita, passavano in secondo piano, e molti erano costretti a ripetere stancamente gli stilemi che avevano dato loro notorietà, pena l'esclusione, l'oblio e la povertà. Nel mio stand erano presenti i quadri di un pittore che usava inserire nelle sue opere neoclassiche buffi personaggi dei cartoni animati, ormai da venti anni. Alla mia domanda: “ma perché ripete queste cose e non fa niente di nuovo?”, la risposta fu: “perché è conosciuto per questo e sono queste le cose che vende bene. Se cambiasse, non sarebbe più nessuno”.

Come una profezia che si auto-avvera, ArtTaipei 2015 andò male: poche transazioni, tutti scontenti dei (pochi) affari fatti.

Ma per me fu una rivelazione: non avrei partecipato al circo, non sarei stato tra quelli che un noto critico italiano (molto in voga, ma non faccio nomi) fa contattare dal suo segretario che dice loro: “il professore avrebbe piacere di visitarLa nel Suo atelier e visionare i Suoi lavori, alla modica cifra di 500 euro”. Se l'artista abbocca, il noto critico, ben intrallazzato con ministeri e assessorati alla cultura, gli proporrà una mostra personale o la partecipazione a collettive o alla Biennale, a suon di decine di migliaia di euro. Ho visto “artisti” che avrebbero sfigurato all'estemporanea della parrocchia esporre in luoghi prestigiosi con la presentazione in catalogo di uno dei noti critici in questione.

Tutto questo mi faceva (e mi fa) schifo. Tutto questo sta minando il patto di fiducia tra Pubblico e Critica, laddove il Critico (vedi G.C. Argan) è al servizio del Pubblico per spiegargli al meglio le qualità di un'opera e ciò che può essergli utile per comprendere la poetica dell'Artista e qualcosa di più sulla sua vita.

Tutto questo sta rovinando le menti delle nuove generazioni, sempre più incerte nel decidere se una cosa gli piace perché, oberati, come se non bastasse, da scolastiche analisi del testo, mappe concettuali e varie inutilità, anche dagli sproloqui di critici interessati a promuovere artistucoli da quattro soldi, che normalmente non sanno né dipingere, né scolpire, né fotografare ma fanno degli allestimenti “interessanti” e sono ben inseriti nel circuito.

Tutto questo ci sta portando all'ignoranza, al dubbio costante tra il valore e il prezzo di un'opera. Sta togliendo a ognuno di noi la capacità di giudicare ciò che vale e fa bene alla nostra anima e ciò che ci rende frustrati se non riusciamo a capire il valore di un'opera costosa né ce la possiamo permettere. È una tendenza che va bloccata, a ogni livello.

Chiamo allora a raccolta gli amici Artisti per l'autogestione delle loro Opere e per la costituzione di un collettivo che rifletta su questi punti e si adoperi per annientare questa ideologia malata da neo-capitalismo finanziario, che sta invadendo anche le zone più sensibili della nostra comunità e del nostro inconscio.

Per quel che mi riguarda, non solo ho deciso di non far parte dell'esercito dei soldatini sempre obbedienti, allineati e coperti che farebbero carte false per partecipare a manifestazioni più o meno importanti e vendere qualche “pezzo” sopravvalutato il cui “surplus” andrà a critici e collezionisti, ma ho deciso di mettere in vendita direttamente le mie fotografie. Non saranno numerate (perché, da Benjamin in poi, è una bestemmia numerare il prodotto di un negativo - o di un file - che può essere stampato in milioni di copie senza perdere di qualità), ma saranno firmate (a testimonianza che ogni stampa è fatta al meglio) e, a richiesta, dedicata.

Aspetto che altri mettano in vendita le loro opere che (potendo) acquisterò volentieri direttamente da loro.

Certo, non è una rivoluzione, ma immaginate quanta bellezza invaderebbe le case di tutto il mondo se ogni creativo vendesse a prezzi calmierati le sue opere, mandando in vacca questo sistema diabolico che ci sta abbrutendo e sta tenendo al chiodo ottimi giovani talenti.

Chi volesse approfondire le modalità per dare vita ad un “mercato parallelo” mi contatti in privato. Per chi vorrà acquistare mie foto, presto pubblicherò l'indirizzo internet su cui farlo.

P.S.: un paio di settimane fa ho raccolto l'invito di “Effetto Ghergo” di donare una foto per contribuire, con la vendita, all'attività di un'associazione benefica. Sicuramente, né il mio ego di creativo, né la quotazione delle mie foto ne hanno tratto vantaggi, ma aiutare chi sta peggio di me ha accresciuto la mia Umanità; inoltre, sapere che una mia foto è nella casa di qualcuno che l'ha apprezzata, mi rende orgoglioso. E tutto questo, sì, aumenta la mia autostima.

Riflessioni sull'Ombra

“Fotografare" vuol dire “scrivere con la luce”, ma questa definizione non rende sufficientemente onore all’ombra.

E questo benché nella fotografia saranno le ombre a dare corpo allo sterminato e incontaminato foglio bianco che viene impressionato in fase di stampa. Se ci fosse solo luce, e nessuna ombra - o nero nelle sue gradazioni - non vi sarebbe immagine. Sarebbe solo luce, e bianco rimarrebbe il foglio. Allora, se nel primo processo di impressione della pellicola è la luce a determinare l’immagine, nella seconda - la stampa - la forma sarà data dalle zone di ombra proiettate sulla carta.

Tralascio qui le considerazioni sulla percezione dell’ombra (e del buio) per come l’Occidente ha strutturato la sua cultura (rimando all’illuminante saggio “Storia del buio” di Nina Edwards) ma vorrei soffermarmi sulla mia esperienza fotografica.

L’innamoramento per la fotografia mi prese in età adolescenziale. Ogni fotografia era per me un modo per appropriarmi di qualcosa che amavo (e a volte di qualcosa che odiavo, che denunciavo o che comunque non accettavo). Solo ora mi rendo conto della verità delle parole di Plinio il Vecchio, secondo il quale “la pittura ebbe origine quando una donna tracciò il profilo dell'amato attorno all'ombra proiettata dal suo viso. Da quel momento l'ombra ha accompagnato l'arte: usata da principio come strumento per riprodurre fedelmente la profondità e la luce…”. E per questo i miei soggetti preferiti erano le ragazze, a cui facevo il ritratto.

Da questa impostazione adolescenziale, nel tempo sono arrivato a considerare la macchina fotografica come la forcella del rabdomante: il desiderio di scoprire qualcosa di sconosciuto, che si nasconde nelle cose e nelle persone, un terzo braccio e un terzo occhio così profondamente connaturati in me che lascio che sia la macchina a interpretare le vibrazioni che da me partono e tornano dal soggetto.

È quindi un altro tipo di amore: da quello sensuale provato per le compagne adolescenti, ad amore per la conoscenza, anch’esso permeato di sensualità distillata. 

Ad un certo punto della mia vita ho sentito il limite del mio agire, in concomitanza con la consapevolezza che tutto (o quasi) è stato detto, che gli archivi di tutto il mondo contengono immagini che ci basteranno per decenni ancora, che nel mondo si scattano fotografie in quantità esponenziali. Ho sentito quindi la necessità di semplificare.

La bellezza disturbata. Il primo episodio di questa trasformazione l’ho provato circa dieci anni fa. Ero stato invitato a trascorrere un fine settimana a Firenze. Pensavo, come al solito, di portarmi la Nikon digitale ma, riflettendo meglio, mi sono chiesto che cosa avrei potuto dire di più su una città che è tra le più fotografate al mondo. Decisi quindi di portare solo un’Hasselblad 6x6 analogica, con un solo obiettivo e con soli tre rulli da dodici pose ognuna, per un totale di trentasei pose: quelle di un rullo 24x36 mm. Il tema che mi detti non era la bellezza di Firenze, ma come questa città sia cambiata rispetto alla sua bellezza rinascimentale. Anche qui: un amore e una denuncia (le foto di questa sezione, come molte altre che citerò, sono pubblicate su questo sito).

Il risultato mi gratificò perché, oltre al risultato estetico, mi ero dato dei limiti, perché avevo contribuito ad inquinare meno un panorama visivo già sovrabbondante di immagini: una sorta di “ecologia (o economia) dello sguardo” che ancora conservo come esperienza.

“Coprifuochi”. Qualche anno fa, durante il lockdown per la pandemia da Covid, ho sentito un forte senso di oppressione non solo nel corpo, ma nell’anima e negli occhi. I media svolgevano un ruolo subdolo e allineato alle direttive del potere, i cittadini erano disorientati e, in più, costretti a casa in balìa di notiziari terroristici. Eravamo tutti schiacciati e costretti a guardare su schermi bidimensionali - spesso minuscoli - per seguire l’andamento della pandemia e delle regolamentazioni e dei divieti che venivano quotidianamente emanati. Ho cercato di rendere questo senso di oppressione (e a volte di follia) che progressivamente si impadroniva di noi. Questo mi ha fatto pensare alle “istituzioni totali” Foucault, e più precisamente al “panopticon”, quella struttura architettonica in cui un solo guardiano più controllare un gran numero di reclusi. E mi sono accorto che, in questa nostra contemporaneità, non c’è più bisogno di un guardiano che ci impedisca o ci permetta di fare, ma che ormai il guardiano l’abbiamo introiettato in noi. E questo a cominciare dal nostro modo di guardare, e quindi di vedere. “Coprifuochi” è il tentativo di raccontare gli ostacoli alla visione, e quindi al pensiero, e come il nostro sguardo cerchi la libertà, evitando gli ostacoli che l’esterno frappone tra noi e l’Infinito. 

Fiori. Anche se non sono arrivati in ordine cronologico dopo i due precedenti temi, i “Fiori” rappresentano uno sguardo liberato su un soggetto naturale. In questa serie, l’occhio può muoversi, liberamente e senza timori, ad esplorare le ombre e le luci che formano l’immagine. Pur se i soggetti sono fotografati a distanza ravvicinata, lo sguardo può muoversi fino all’Infinito, perché quei “Fiori” fanno parte di una Natura che tutto comprende, sia il vicino che il lontano, l’infinitamente piccolo e gli spazi siderali, le nostre emozioni intime e una bellezza propria. E la serie non esclude quella carica erotica di origine adolescenziale che mi portò, desiderando, a fotografare quel che vedevo.

Haiku. Torniamo alla questione dell’ombra di cui scrivevo all’inizio. È la parte più recente del mio lavoro. La spinta è stata aver ascoltato una conferenza in cui alcuni esperti di cultura giapponese parlavano di Haiku. Si tratta di brevissime composizioni di tre versi in cui il primo e l’ultimo sono formati da cinque more (non propriamente sillabe), mentre il verso centrale ne conta sette. 

“Lo haiku è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo. È composto da tre versi per complessive diciassette more, secondo lo schema 5/7/5.”

È stata per me una folgorazione, sia perché amo la grafica e la pittura giapponese, sia perché ho sentito una vibrazione con il mio modo di intendere la vita e la fotografia.

Nella serie “Haiku”, l’ombra ha una parte preponderante. Dopo “Coprifuochi” ho sentito la necessità (fisica!) di posare lo sguardo oltre l’immediatamente vicino. Le ombre hanno questa proprietà: di suggerire oggetti non precisamente identificabili che non insistono su uno spazio riconoscibile. Le ombre vengono da lontano, di solito dalle spalle di chi guarda, e terminano il loro percorso su un piano che può raccoglierne la forma. Per la loro stessa natura, sono le più adatte a formare immagini sul supporto bianco di una carta fotografica. Le ombre mi incantano perché non costringono lo sguardo su forme date e intellegibili, ma permettono che l’immaginazione vaghi alla ricerca dell’origine dell’oggetto che le ha create, proiettandoci in un territorio (a volte sulla Natura) denso di suggestioni e sorprese che è spesso molto lontano dalla nostra visuale. In questa visione, coesistono due realtà parallele e collegate: quella immanente del soggetto che vediamo e riconosciamo, calata in un “qui e ora” che è spesso la quotidianità, e quella misteriosa, che attiene ad altri spazi che vengono da lontano.

Ed è quel che raccontano gli Haiku tradizionali: pochi versi per raccontare la situazione, lo stato d’animo, un momento del poeta, in relazione alla Natura, all’ambiente esterno, alla stagione, lasciando al lettore - grazie alla sua impalpabilità - la libertà di completare il quadro - ricco dei vuoti di cui è pieno ogni componimento. Ogni buon Haiku è una sorta di stella cometa che attraversa, nella brevità di un batter di ciglia, un cielo stellato ricco di meraviglie. 

Anche qui: un’economia dello scrivere e del pensare in una composizione affilata come una katana.

Su “Sorry We Missed You” di Ken Loach

visibile su raiplay a https://www.raiplay.it/programmi/sorrywemissedyou

Il primo istinto dopo la visione di questo film è stato di aprire la finestra e urlare: “Che cosa fate ancora lì? Non vedete che vita stiamo vivendo? Fino a quando?”.

Invece ne scrivo, a casa, alla luce fioca del mio Mac, nella mia comfort zone.

Ricky, il protagonista, vive a Newcastle con la moglie e due figli adolescenti. A causa della crisi - una delle tante - perde il lavoro e inizia a collaborare (“imprenditore di se stesso”) con una ditta in franchising di spedizioni per le multinazionali della vendita on-line. Non potendosi indebitare ulteriormente, vende la macchina della moglie - che è una badante a domicilio - e che perciò è costretta a spostarsi con i mezzi pubblici da un punto all’altro della città. 

Lavora 14 ore al giorno con ritmi impossibili, e deve rendere conto al suo unico committente di ogni spostamento, ritardo, assenza… a suon di multe che invalidano le sue entrate.

La sua famiglia sta andando a pezzi, a cominciare dal rapporto con il figlio maschio e poi con la moglie. Viene picchiato e rapinato da una banda di ragazzini e, ferito e dolorante, ancor prima di accertarsi delle sue condizioni di salute, riprende il furgone e torna a lavorare.

La la tragedia attraversa tutto il film. Il lavoro, la necessità di portare a casa ciò di cui vivere, quella cosa che gli farebbe acquistare dignità agli occhi del figlio, quella tragedia continua di chi vive sapendo che può cadere inesorabilmente da un momento all’altro (un diverbio con il suo capo o con un cliente, un incidente stradale, un ritardo nelle consegne…) rendono la vita stessa una tragedia sul punto di compiersi. 

Dall’altra parte, ci sono le relazioni con la “gente comune”: i colleghi con cui Ricky stabilisce una solidarietà, o le clienti che sua moglie tratta con amore filiale, ricambiato.

E qui si evidenzia la cesura, il discrimine: il mondo del lavoro con le sue gerarchie, i suoi ritmi, la sua spietatezza… Dall’altra le relazioni amicali e famigliari, fatte di attenzioni, tenerezze, slanci di generosità che nulla possono però contro il Moloch rappresentato da una macchinetta che registra tutti i movimenti di Ricky, i suoi tempi, le consegne fatte e da fare, i percorsi da seguire, i ritardi e la produttività: tutto un mondo di affetti viene sconfitto da una macchinetta che contiene un algoritmo, senza tregua, senza pietà, senza scampo. Tutta la millenaria storia degli uomini nulla vale più di fronte ai giganti economici, condensati in un aggeggio che se rompi devi pure ripagare mille sterline.

Ma la tragedia non si compie, è solo ritardata, procrastinata, se non già compiuta. Loach non dà soluzioni né happy end. Il film si chiude con la moglie e il figlio di Ricky che cercano invano di impedirgli di riprendere il furgone per tornare a lavorare, benché malandato.

Ricky (sembra ci dica Loach) è ora su tutte le strade dell’Occidente neo-liberista, dove chi ha potere non si perita neanche di assumere e garantire i suoi dipendenti, ma fa loro credere di essere “imprenditori di se stessi” usandoli non solo per 14 ore al giorno, ma fin dentro le loro vite, nell’intimità, in famiglia, che ne escono devastate sull’altare del profitto, della libera concorrenza, della logica del profitto rappresentata a volte da altrettanti miserabili che affidano i loro risparmi acquistandone le azioni.

Ecco, questo film mi ha ricordato “I Miserabili” di Hugo: una folla di sfruttati che possono diventare a loro volta degli sfruttatori, come la figura del capo di Ricky, che confessa candidamente di comportarsi in modo spietato per mandare avanti questa macchina infernale.

La domanda che resta è: fino a quando? Quale sarà il granello di sabbia che farà inceppare la macchina? Di quanti granelli di sabbia ci sarà bisogno? E che cosa può fare ognuno di noi perché questo incubo finisca?

LE MERAVIGLIE DELL'IMMAGINE LATENTE

L'immagine latente è per me una delle cose più misteriose e affascinanti della fotografia (analogica, su pellicola).

Quando all'interno della camera oscura di una macchina fotografica la luce colpisce la superficie di una pellicola (vergine), per un processo chimico/fisico, l'energia della luce modifica i cristalli di alogenuro d'argento sospesi nella gelatina dell'emulsione e produce un'immagine invisibile (formata da agglomerati di atomi di argento) che sarà rivelata solo dagli acidi di sviluppo, detti appunto “rivelatori”.  

In fase di sviluppo, le zone della pellicola colpite dalla luce (in maniera graduata a seconda della quantità di luce ricevuta) rimarranno opache, mentre nelle zone NON colpite dalla luce la gelatina verrà eliminata e resterà solo il supporto della pellicola (trasparente). Questo è il Negativo.

In fase di stampa, questi valori saranno invertiti, e le zone opache, che trattengono luce (o ne trattengono in parte) daranno valori bianchi e chiari (quelli della carta emulsionata baritata bianca su cui si stampa), mentre le zone trasparenti della pellicola (attraversate dalla luce di un ingranditore) daranno valori neri o scuri.

La prima meraviglia sta nel fatto che anche dopo anni - se la pellicola è stata conservata in modo corretto - l'immagine latente rimane “congelata” nella pellicola e potrà essere rivelata in ogni momento. È una promessa (e una sorpresa) che aspetta solo di “venire alla luce”.

Si noti che le attuali macchine digitali non producono immagini latenti, ma l'azione della luce eccita  un sensore elettronico che trasforma in segnale analogico la luce che lo colpisce. Il segnale viene poi trasformato in codice binario da un convertitore analogico-digitale. 

Se quindi nel primo caso c'è l'elemento “tempo lungo”, nella fotografia digitale il tempo di trasformazione della luce in immagine è quasi nullo, dell'ordine di pochi millisecondi.

È come se all'interno della camera oscura della macchina fotografica analogica avvenisse una sorta di “matrimonio mistico” in cui si incontrano la Luce e la Pellicola (ripeto: Vergine) in attesa della Rivelazione dell'Immagine. Dopo questo incontro, la pellicola non è più Vergine.

Risulta chiaro come questo processo ricordi un processo Alchemico: la Luce (Yang, Energia luminosa, positiva) incontra la Pellicola (Yin, una Luce negativa, passiva) e insieme producono un'immagine-non immagine che sarà compito dell'Alchimista (il Fotografo) rivelare (o svelare). 

Tutto questo si svolge nella completa oscurità di Camere: il primo momento del “Matrimonio Mistico” avviene nella camera oscura della macchina fotografica; nel momento in cui si scarica la pellicola dalla macchina fotografica, la pellicola è ancora protetta dalla luce dal suo caricatore; sempre nella più assoluta oscurità, la pellicola passa nel recipiente in cui verranno versati i vari acidi di sviluppo e fissaggio. Solo a questo punto, una volta fissata l'azione del rivelatore, il negativo potrà essere esposto alla luce e potrà essere attraversato nuovamente dalla luce dell'ingranditore (o da altra luce se si stampa a contatto) per produrre finalmente un'immagine positiva su carta. Nel processo di stampa, solo una fioca luce rossa potrà illuminare la camera oscura - l'unica che le carte da stampa sopportano – affinché il fotografo possa controllare l'andamento dello sviluppo della carta. 

Anche le carte positive producono un'immagine latente che verrà poi rivelata nello sviluppo, ma se la carta viene esposta per lungo tempo (ore o addirittura settimane a seconda della quantità di luce che un obiettivo o un foro stenopeico trasmettono alla carta), l'immagine latente diventa direttamente visibile. Questa tecnica, conosciuta come “solargrafia”, è solitamente impiegata per catturare il movimento apparente del Sole nel cielo. 

E qui mi stupisco come l'energia del Sole sia così potente da supplire all'azione dei rivelatori chimici e contenga in sé la proprietà che hanno gli elementi chimici.

Ora, mi sono chiesto perché questo fenomeno mi appassioni tanto.

Nei giorni scorsi, a Jesi, nell'ambito degli incontri di “Pojesis” “Corpi di/versi” voluto dalla locale AnffAS, ho tenuto un laboratorio di “Fotografia al buio”. Il titolo è contemporaneamente un ossimoro e una forzatura: ossimoro perché “fotografia” è “scrittura di luce”, e dove non c'è luce non c'è fotografia; forzatura, perché nella pratica, essere al buio e fotografare sono stati due momenti diversi. La struttura era semplice: persone bendate che non si conoscevano dovevano (in cerchio) raccontarsi. Gli altri, ascoltando solo la voce, dovevano farsi un'immagine di chi parlava solo ascoltandone la voce, che avrebbero poi reso in un ritratto fotografico. Ecco: le immagini che ognuno si faceva erano “immagini latenti”, che dovevano trattenere fin quando, tornando alla luce, non avrebbero realizzato il ritratto.

Una delle finalità dell'operazione (a detta dei partecipanti perfettamente riuscita e interessante) era eliminare i pregiudizi di carattere estetico che ognuno di noi ha davanti a un'altra persona, e quindi l’invito era fotografarla solo per le suggestioni della voce e del racconto che ognuno faceva.

Ma un’altra suggestione mi sembra ancor più interessante: l’analisi dell’immagine latente mi riporta ai Talenti (sarà un caso che TALENTI sia l’anagramma di LATENTI?).

Ognuno di noi ha in sé una o più immagini latenti che vorrebbe concretizzare: mi viene in mente la parola “desiderio”. In fondo, ogni creativo - che scriva, dipinga, fotografi, suoni, danzi… - non fa, per tutta la vita, che cercare qualcosa che lo colleghi direttamente con quello che ha in animo. Come fotografo, le mie foto - mi accorgo - non sono che tessere di un puzzle nella continua ricerca dell’IMMAGINE, di QUELLA immagine, che ci soddisfa perché è già dentro di noi e vorremmo ri-vederla, rivelarla, affinché possa RISUONARE dentro di noi e insieme agli altri.

È la ricerca degli Alchimisti, che solo gli stolti pensano volessero realmente trasmutare i metalli vili in oro. La loro ricerca (la ricerca dell’oro, e del nostro oro) era puramente spirituale (e non venale) come Marcel Duchamp ha ampiamente dimostrato. E, anche qui, c’è bisogno di VERGINITÀ, che non è illibatezza, ma purezza di cuore - come della fanciulla che aspetta il suo sposo - e non interesse venale.

Ora, tutti abbiamo un’immagine latente in noi: il Talento. 

Cristo, nella sua parabola, aveva avvertito che è un peccato grave non mettere in pratica quei Talenti, tanti o pochi, che ognuno di noi ha ricevuto alla nascita. 

E tutti noi siamo chiamati a rispondere al Padrone del campo restituendo moltiplicati i suoi doni.