Grazie alla lettura dei racconti di Raymond Carver (e un po' di esperienza personale), mi sono fatto l'idea che la buona arte è strabica. In senso positivo, nel senso che guarda in due direzioni diverse.
Mi viene alla mente il bellissimo racconto “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore” di Raymond Carver. Intorno ad un tavolo di cucina, di pomeriggio, due coppie di amanti (tutti precedentemente sposati con altri) cominciano a bere gin ognuno raccontando le proprie esperienze di coppia. La conversazione va avanti a lungo, tra ricordi, recriminazioni, confessioni, rimpianti... E con tanto gin da due soldi.
È una girandola in cui il lettore è il vero protagonista della storia, chiamato a ricucire storie a volte lontane a volte presenti. Si legge il racconto (l'ho letto) come a cercare qualche verità dalle parole dei personaggi, rimbalzata da uno all'altro. Ma il momento rivelatore è un dettaglio: a un certo punto Carver dice che si sta facendo buio, e la luce brillante del pomeriggio, che invadeva la cucina, svanisce e se ne esce dalla finestra da cui era entrata; ma nessuno accende la luce fredda dell'illuminazione artificiale. Ora, credo che tutti noi abbiamo esperienza di quel momento in cui in un interno la luce del sole cala ma si cerca di resistere e di non accendere la luce perché, da lì in poi, tutto sarà diverso, tutto svanirà e la luce elettrica farà scomparire la meraviglia a cui i nostri occhi si erano abituati a fatica: tutto diventerà banale e piatto laddove, prima, la vita intorno attuava una delle sue più mirabili trasformazioni dal giorno alla notte.
Questo dettaglio, in Carver, è detto con poche parole (che non ricordo con precisione), ma che illuminano come un lampo tutto il senso del racconto. Da lì in poi si percepisce tutta la pesantezza della situazione, tutto il non detto, tutto il mistero dell'amore, che le parole invano cercavano di chiarire. È come se Carver ci avesse invaso con maree di frasi ma il “punctum” era la luce. Tutto ruota intorno a quel momento, e a da lì in poi il silenzio imbarazzato dei personaggi illuminati dalla luce artificiale si fa tangibile. Tutto cade, come cadono il giorno e l'esterno quando si accendesse una lampadina al crepuscolo. Ma è il buio che fa silenzio tutto intorno, e tutti riescono, finalmente, a sentire il battito dei loro cuori.
Che cosa mi ha insegnato questo racconto? Che l'artista non prende di petto una questione, ma la corteggia: la guarda da lontano, guardando anche ciò che non si vede immediatamente e non si può troppo raccontare a parole. Lui “sa” che c'è dell'altro, ma non lo dice: lo fa appena intravvedere e poi, zac! con un colpo da maestro arriva la rivelazione: una lampadina che (non) si accende e in una frazione di secondo (non) uccide la debole luce del giorno.
Allo stesso modo, nell'Ottocento, il noto storico dell'arte Giovanni Morelli riconosceva l'autenticità di un'opera pittorica analizzando dettagli secondari, insignificanti, quali la conformazione delle dita delle mani o dei piedi, di un orecchio, ecc. In questo modo, dettagli che l'artista aveva dipinto senza troppa attenzione - perché secondari - rivelavano la sua firma unica e inconfondibile. Perché i falsari si concentrano più su aspetti importanti quali la geometria, la luce, l'espressione del volto, mentre ai dettagli non danno peso. Forse è per questo che si dice che “nei dettagli si nasconde il diavolo”.
In questi casi, però, si rivela la verità (per chi la sappia cercare).
Per chi volesse ascoltare il racconto: https://youtu.be/WIp-c8_X1Ik?si=mz6yJcDH968UFDus