“Fotografare" vuol dire “scrivere con la luce”, ma questa definizione non rende sufficientemente onore all’ombra.
E questo benché nella fotografia saranno le ombre a dare corpo allo sterminato e incontaminato foglio bianco che viene impressionato in fase di stampa. Se ci fosse solo luce, e nessuna ombra - o nero nelle sue gradazioni - non vi sarebbe immagine. Sarebbe solo luce, e bianco rimarrebbe il foglio. Allora, se nel primo processo di impressione della pellicola è la luce a determinare l’immagine, nella seconda - la stampa - la forma sarà data dalle zone di ombra proiettate sulla carta.
Tralascio qui le considerazioni sulla percezione dell’ombra (e del buio) per come l’Occidente ha strutturato la sua cultura (rimando all’illuminante saggio “Storia del buio” di Nina Edwards) ma vorrei soffermarmi sulla mia esperienza fotografica.
L’innamoramento per la fotografia mi prese in età adolescenziale. Ogni fotografia era per me un modo per appropriarmi di qualcosa che amavo (e a volte di qualcosa che odiavo, che denunciavo o che comunque non accettavo). Solo ora mi rendo conto della verità delle parole di Plinio il Vecchio, secondo il quale “la pittura ebbe origine quando una donna tracciò il profilo dell'amato attorno all'ombra proiettata dal suo viso. Da quel momento l'ombra ha accompagnato l'arte: usata da principio come strumento per riprodurre fedelmente la profondità e la luce…”. E per questo i miei soggetti preferiti erano le ragazze, a cui facevo il ritratto.
Da questa impostazione adolescenziale, nel tempo sono arrivato a considerare la macchina fotografica come la forcella del rabdomante: il desiderio di scoprire qualcosa di sconosciuto, che si nasconde nelle cose e nelle persone, un terzo braccio e un terzo occhio così profondamente connaturati in me che lascio che sia la macchina a interpretare le vibrazioni che da me partono e tornano dal soggetto.
È quindi un altro tipo di amore: da quello sensuale provato per le compagne adolescenti, ad amore per la conoscenza, anch’esso permeato di sensualità distillata.
Ad un certo punto della mia vita ho sentito il limite del mio agire, in concomitanza con la consapevolezza che tutto (o quasi) è stato detto, che gli archivi di tutto il mondo contengono immagini che ci basteranno per decenni ancora, che nel mondo si scattano fotografie in quantità esponenziali. Ho sentito quindi la necessità di semplificare.
“La bellezza disturbata”. Il primo episodio di questa trasformazione l’ho provato circa dieci anni fa. Ero stato invitato a trascorrere un fine settimana a Firenze. Pensavo, come al solito, di portarmi la Nikon digitale ma, riflettendo meglio, mi sono chiesto che cosa avrei potuto dire di più su una città che è tra le più fotografate al mondo. Decisi quindi di portare solo un’Hasselblad 6x6 analogica, con un solo obiettivo e con soli tre rulli da dodici pose ognuna, per un totale di trentasei pose: quelle di un rullo 24x36 mm. Il tema che mi detti non era la bellezza di Firenze, ma come questa città sia cambiata rispetto alla sua bellezza rinascimentale. Anche qui: un amore e una denuncia (le foto di questa sezione, come molte altre che citerò, sono pubblicate su questo sito).
Il risultato mi gratificò perché, oltre al risultato estetico, mi ero dato dei limiti, perché avevo contribuito ad inquinare meno un panorama visivo già sovrabbondante di immagini: una sorta di “ecologia (o economia) dello sguardo” che ancora conservo come esperienza.
“Coprifuochi”. Qualche anno fa, durante il lockdown per la pandemia da Covid, ho sentito un forte senso di oppressione non solo nel corpo, ma nell’anima e negli occhi. I media svolgevano un ruolo subdolo e allineato alle direttive del potere, i cittadini erano disorientati e, in più, costretti a casa in balìa di notiziari terroristici. Eravamo tutti schiacciati e costretti a guardare su schermi bidimensionali - spesso minuscoli - per seguire l’andamento della pandemia e delle regolamentazioni e dei divieti che venivano quotidianamente emanati. Ho cercato di rendere questo senso di oppressione (e a volte di follia) che progressivamente si impadroniva di noi. Questo mi ha fatto pensare alle “istituzioni totali” Foucault, e più precisamente al “panopticon”, quella struttura architettonica in cui un solo guardiano più controllare un gran numero di reclusi. E mi sono accorto che, in questa nostra contemporaneità, non c’è più bisogno di un guardiano che ci impedisca o ci permetta di fare, ma che ormai il guardiano l’abbiamo introiettato in noi. E questo a cominciare dal nostro modo di guardare, e quindi di vedere. “Coprifuochi” è il tentativo di raccontare gli ostacoli alla visione, e quindi al pensiero, e come il nostro sguardo cerchi la libertà, evitando gli ostacoli che l’esterno frappone tra noi e l’Infinito.
“Fiori”. Anche se non sono arrivati in ordine cronologico dopo i due precedenti temi, i “Fiori” rappresentano uno sguardo liberato su un soggetto naturale. In questa serie, l’occhio può muoversi, liberamente e senza timori, ad esplorare le ombre e le luci che formano l’immagine. Pur se i soggetti sono fotografati a distanza ravvicinata, lo sguardo può muoversi fino all’Infinito, perché quei “Fiori” fanno parte di una Natura che tutto comprende, sia il vicino che il lontano, l’infinitamente piccolo e gli spazi siderali, le nostre emozioni intime e una bellezza propria. E la serie non esclude quella carica erotica di origine adolescenziale che mi portò, desiderando, a fotografare quel che vedevo.
“Haiku”. Torniamo alla questione dell’ombra di cui scrivevo all’inizio. È la parte più recente del mio lavoro. La spinta è stata aver ascoltato una conferenza in cui alcuni esperti di cultura giapponese parlavano di Haiku. Si tratta di brevissime composizioni di tre versi in cui il primo e l’ultimo sono formati da cinque more (non propriamente sillabe), mentre il verso centrale ne conta sette.
“Lo haiku è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo. È composto da tre versi per complessive diciassette more, secondo lo schema 5/7/5.”
È stata per me una folgorazione, sia perché amo la grafica e la pittura giapponese, sia perché ho sentito una vibrazione con il mio modo di intendere la vita e la fotografia.
Nella serie “Haiku”, l’ombra ha una parte preponderante. Dopo “Coprifuochi” ho sentito la necessità (fisica!) di posare lo sguardo oltre l’immediatamente vicino. Le ombre hanno questa proprietà: di suggerire oggetti non precisamente identificabili che non insistono su uno spazio riconoscibile. Le ombre vengono da lontano, di solito dalle spalle di chi guarda, e terminano il loro percorso su un piano che può raccoglierne la forma. Per la loro stessa natura, sono le più adatte a formare immagini sul supporto bianco di una carta fotografica. Le ombre mi incantano perché non costringono lo sguardo su forme date e intellegibili, ma permettono che l’immaginazione vaghi alla ricerca dell’origine dell’oggetto che le ha create, proiettandoci in un territorio (a volte sulla Natura) denso di suggestioni e sorprese che è spesso molto lontano dalla nostra visuale. In questa visione, coesistono due realtà parallele e collegate: quella immanente del soggetto che vediamo e riconosciamo, calata in un “qui e ora” che è spesso la quotidianità, e quella misteriosa, che attiene ad altri spazi che vengono da lontano.
Ed è quel che raccontano gli Haiku tradizionali: pochi versi per raccontare la situazione, lo stato d’animo, un momento del poeta, in relazione alla Natura, all’ambiente esterno, alla stagione, lasciando al lettore - grazie alla sua impalpabilità - la libertà di completare il quadro - ricco dei vuoti di cui è pieno ogni componimento. Ogni buon Haiku è una sorta di stella cometa che attraversa, nella brevità di un batter di ciglia, un cielo stellato ricco di meraviglie.
Anche qui: un’economia dello scrivere e del pensare in una composizione affilata come una katana.